lunes, 23 de marzo de 2015

Il linguaggio strategico di santa Teresa d’Avila


Carissimo lettore: prova ad aprire, a caso, una pagina qualunque, di un’opera qualunque, di santa Teresa d’Avila. Ti garantisco che l’impressione che ne avrai sarà quella di avere a che fare con uno scritto “spontaneo” che segue, cioè, il flusso del pensiero della sua autrice senza esitazioni, così come scivola fuori dalla penna per imprimersi, attraverso l’inchiostro, sulla carta.

Pare che dietro non ci sia tutto quel lavoro di rielaborazione mentale che ne apporta tagli, ritocchi, cancellazioni necessarie a rendere il testo più fluido e più snello di particolari. Teresa racconta, rielabora tornando su ciò che ha appena affermato, fa delle continue digressioni, aggiunge, rettifica: si potrebbe pensare che stia improvvisando e che non abbia poi il tempo, o la capacità, di “ritoccare” il suo lavoro.

Si potrebbe pensare proprio questo! In realtà, ciò che di primo acchito può sembrare il risultato di una mancanza di stile e di rigore intellettuale, è il frutto di una strategia comunicativa elaborata da una donna di profonda spiritualità del XVI secolo, che ha la sfortuna di nascere all’interno di una società maschilista, oppressiva e sacralizzata, che mal vede le donne, soprattutto quelle che leggono, pensano e pregano.

Purtroppo per lei, Teresa legge molto, ha una spiccata intelligenza e prega; poi scrive e per farlo deve cercare elementi autorevoli e fare appello a essi in continuazione per rendere credibile e inattaccabile il suo messaggio, soprattutto al suo principale e attentissimo lettore: l’inquisitore.

Se il lettore di oggi rimanesse infastidito dal continuo ricorso che Teresa fa del pronome personale “io” nel riferire le sue esperienze, noi lo aiutiamo a rasserenarsi dicendogli che la nostra Teresa è animata da un’unica intenzione: farsi capire, attirare l’attenzione sulle tematiche che vuole trattare, ben sapendo, però, di dover lottare contro certi condizionamenti del suo tempo. Così fa appello a un discorso “esperienziale”, in contrasto con la teologia “pensata” del maschio speculativo. 

Ci chiediamo: come può una donna della Spagna del XVI secolo anche solo pensare di “convincere” ricorrendo alla sua personale esperienza? Teresa lo sa bene ed eccola interpolare i suoi racconti con espressioni di “falsa modestia”: le sue pagine sono stracolme di confessioni dei propri limiti. I termini con i quali si descrive più di frequente sono “spregevole”, “donna”, “peccatrice”.

"Immersa in una società che emarginava la donna e seduta sul banco degli accusati di fronte ai suoi censori tutti uomini, Teresa dovette moltiplicare le sue strategie retoriche per guadagnarne in tal modo la benevolenza e l’approvazione. E si servirà dell’emblematica inferiorità della donna per guadagnare sottilmente la volontà del lettore: “e io non sono proprio nulla” (V 31,24), “io non sono buona ad altro che parlare” (V 21, 5). Inoltre “essendo quella che sono” (V 15, 7), “se avessi autorità per scrivere” (V 6, 8), “ma non valgo nulla, Signore mio” (V 30, 13), “basta essere donna perché caschino le braccia” (V 10, 8). È una vera e propria dichiarazione (con tanto di protesta) di femminismo anticipato" (Juan Antonio Marcos, Mistica e sovversiva: Teresa di Gesù. Le strategie retoriche del discorso mistico della Santa di Avila).

E così tra una dichiarazione e un’altra di miseria personale, all’interno di un gioco di autoironia, Teresa può far passare ciò che le sta più a cuore: un messaggio di liberazione.

E ben sapendo di trovarsi di fronte a studiosi e “censori” (maschi) interessati ai suoi scritti, Teresa “fa entrare in scena un secondo personaggio, Dio stesso”. Il testo teresiano è ricco di citazioni, in stile diretto, di ciò che Dio le va dicendo, parole d’incoraggiamento, di elogio, di approvazione, ricevute nel suo cammino fondazionale affrontato in mezzo a mille ostacoli e difficoltà. 

D’altronde, lo ribadiamo, Teresa vive in un’epoca nella quale le donne non hanno diritto a insegnare pubblicamente, ed è perciò necessario attingere, a garanzia del proprio pensiero, a fonti estremamente autorevoli quale poteva essere la parola del Signore. Teresa stessa attesta:

"Perché molte delle cose che scrivo non sono di testa mia, ma è il mio Maestro celeste a dirmele; perciò quando dico esplicitamente: ‘ho inteso così’, o ‘il Signore mi ha detto’, mi faccio grande scrupolo se devo aggiungere o levare anche una sola sillaba; e quando puntualmente non mi ricordo tutto bene, viene detto come se fosse mio o perché alcune cose lo saranno pure".

Non c’è da scandalizzarsi, dunque, se Teresa prende come garante del suo messaggio il suo stesso Signore e poco importa se le locuzioni che riferisce a Dio gli appartengono o meno: Teresa è una donna di fede ed è convinta di stare dalla parte di Dio, così come è certa che Dio non può non stare dalla parte di Teresa, per una logica di amicizia ampiamente sperimentata.

Dopotutto Teresa conosce il suo lettore principale, il censore dell’inquisizione, ed è cosciente che se vuole sopraffare il “nemico” deve fare ricorso a quell’unica autorità che la Spagna sacralizzata del tempo non si permette di attaccare.

Teresa appare, così, decisamente anticonformista: nella scrittura, con il ricorso a innumerevoli strategie retoriche per rendere credibile il proprio pensiero ed operato, e nella vita dando origine a un processo di coscientizzazione all’interno del mondo femminile “religioso”; processo di difficile attuazione per un ostinato atteggiamento, tuttora dilagante, di miserevole prostrazione alla figura del maschio ordinato.

Passiamo in rapida rassegna gli scritti della nostra autrice. Innanzitutto redige un racconto della sua Vita (1562), del cammino da lei percorso, una strada battuta esperienza dopo esperienza con la fretta di arrivare in un punto che non è spazio fisico ma interiorità al livello più profondo, tale da scoprire la propria “umanità”, liberata da falsità, vuoti, egocentrismi.

La seconda opera di santa Teresa è il Cammino di perfezione (1565): se nel libro della Vita l’attenzione era rivolta principalmente su se stessa, sul rapporto con Dio, ora avverte l’esigenza di donare una guida concreta alle sue consorelle che vivono, insieme a lei, la quotidianità del Carmelo.

Quando, poi, inizia quel continuo girovagare per la Spagna, fondazione dopo fondazione, divenendo contagiosa “cellula orante”, mette per iscritto anche il racconto della storia dei conventi da lei fondati: il libro delle Fondazioni (1576) ci dice di piccoli gruppi di preghiera, impostati sulla povertà evangelica e sull’apertura verso gli altri, attenti ai bisogni di chi abita al loro fianco. In un’epoca di sterile discorso teologico, Teresa “decide” di costruire nuclei densi di calore e vita piena. Nel guardare la mappa delle sue fondazioni, si capisce che abbiamo a che fare con una vera e propria stratega: con meticolosa attenzione sceglie i luoghi in cui “stare”, in mezzo alla gente, in progressiva penetrazione nel mondo.

Il Castello interiore (1577) è un’opera che va al nucleo del cammino di liberazione di ogni essere umano, quel progressivo entrare, camera dopo camera, per giungere nella stanza centrale dell’intima trasformazione a “due”.

Poi le Lettere, circa 450 [si conservano 500 delle 15000 che scrisse], ci danno l’immagine di una donna attiva, dinamica, scaltra, arguta, simpatica, amorevole, abile negli affari, passionale negli affetti: una donna reale, completamente dedita agli affari degli altri.

Leggiamoli, dunque, gli scritti di Teresa. E nel frattempo che ci addentriamo sempre più nella sua lettura, teniamo sempre a mente una sua convinzione:

"Perché stiamo in un mondo in cui è necessario pensare a quello che gli altri possano pensare di noi, perché le nostre parole abbiano effetto (F 8, 7).

Articolo scritto da Maria Concetta Bomba e pubblicato il 22 marzo 2015 qui.

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